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Prosa e sceneggiatura: scrivere per immagini.

By Velma Starling

Sabato 28 ottobre a Imola si è svolta la quarta puntata della rassegna “Donne di Carattere”, organizzata dal polo emiliano-romagnolo di Ewwa con la collaborazione del Comune di Imola e il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Imola. Tema della giornata: “Scrivere e sceneggiare: due universi a contatto”.

La sessione mattutina è stata condotta da Franca De Angelis e Gabriella Giacometti, che hanno introdotto il pubblico al concetto stesso di sceneggiatura e alle nozioni base ad esso collegate. Se un film, com’è ovvio, racconta una storia, la sceneggiatura è uno strumento tecnico diretto alle varie categorie di persone che realizzano il film e deve comunicare né più e né meno di ciò che serve. Per arrivare alla sceneggiatura così intesa, si passa attraverso due fasi di lavoro preliminare. Uno è il soggetto: un riassunto per sommi capi della storia, fatto in modo da capirne le dinamiche essenziali. Segue il trattamento: una versione più ampia del soggetto, un racconto vero e proprio che dia spazio al sentimento, alle atmosfere, agli aspetti più profondi della storia che si intende realizzare.

La sceneggiatura vera e propria è invece divisa in scene, selezionate per unità di tempo e luogo, e fa uso di una scrittura per immagini. Esistono i dialoghi, certo, ma resta necessario pensare per immagini. In termini ancora più drastici, possiamo dire che una sceneggiatura è composta solo di azioni e battute. Rispetto alla normale prosa, qual è l’elemento fondamentale che viene a mancare? Il pensiero. Ciò che è interiore va quindi trasformato in qualcosa di esteriore, di visivo. Un romanzo può permettersi di lavorare su digressioni, sullo stile, su approfondimenti. La sceneggiatura no, perché si basa su descrizioni molto sintetiche, finalizzate a spiegare solo ciò che si vede (spesso e volentieri senza neppure entrare nel merito di come lo si vede: si tende a non indicare più le inquadrature, al massimo a suggerirle mediante qualche artificio stilistico, in modo che al regista rimanga – almeno in teoria – completa autonomia di giudizio su come inquadrare personaggi, ambienti, oggetti). Ciò di cui la sceneggiatura può però servirsi per evocare un’atmosfera, un mood, è l’ambiente. Location diverse esprimono sensazioni diverse: una baita di montagna è ben diversa da un grattacielo, da una spiaggia, dalle pendici di un vulcano. È come se l’ambiente fosse un personaggio, che a modo suo parla e comunica.

La scrittura in prosa ha varie peculiarità, delle quali è giusto che faccia uso, senza eccedere – come a volte oggi accade – nell’imitare il linguaggio secco e visivo proprio delle sceneggiature, processo che rischia di risolversi in un impoverimento della prosa stessa. Nel caso di una trasposizione di una storia da romanzo a film, e quindi della stesura di una sceneggiatura, allora sì che avrà senso estrapolare lo stretto necessario e modificare ciò che non si adatta all’obiettivo prefissato. Ad esempio, i dialoghi di un romanzo non sono sempre adatti a essere recitati. Servono frasi brevi, povere di subordinate, ma ricche invece di interiezioni ed esitazioni: tutto ciò che serve a rendere un dialogo più simile al vero parlato quotidiano. Di conseguenza, l’importante non è che sceneggiatore e regista trasportino alla lettera il romanzo originale dalla carta allo schermo: importa che assorbano il sentimento che anima il romanzo originale.

Uno sceneggiatore è anche uno scrittore? Non sempre. È vero che, dopo il 2008, anno che ha segnato l’inizio di una grave crisi nel mercato della fiction tv italiana, molti sceneggiatori si sono dedicati alla narrativa e al teatro, diventando quindi scrittori o drammaturghi. È vero anche che non tutti hanno seguito questa strada perché non necessariamente chi sa sceneggiare sa anche scrivere. La peculiarità dello sceneggiatore è saper strutturare una storia, tant’è vero che a volte lo sceneggiatore lavora in squadra con altre figure professionali che si servono del suo sapere e lo usano come base su cui innestare il resto, come ambientazioni e dialoghi. In Francia, ad esempio, capita spesso che le sceneggiature siano firmate da una coppia di professionisti; uno scenarista e un dialoghista. Ovunque nel mondo, nel caso della lunghissima serialità (serie tv composte di tante stagioni, soap-opera…), si può tranquillamente parlare di opere collettive in cui ogni professionista deve occuparsi solo di una parte del lavoro. Almeno nel mercato anglosassone, c’è però una figura centrale che tira le fila di tutto, il cosiddetto showrunner: colui che “ha avuto l’idea”, e che è indicato nei titoli di apertura alla voce “created by”; una figura che in Italia non esiste ancora, perché è contesa fra il regista, lo sceneggiatore e il produttore.

Alla domanda se ci siano state occasioni di grave difficoltà in una trasposizione, Franca De Angelis ha citato due casi. Il primo è la miniserie in due episodi “Exodus”, ispirata a un piccolo libro di Ada Sereni, dal titolo “I clandestini del mare”, nel quale l’autrice raccontava in modo sintetico e diaristico i viaggi che lei stessa aveva organizzato per trasferire centinaia di ebrei scampati all’Olocausto nelle zone in cui sarebbe poi sorto lo stato di Israele. Il libro originale era talmente minuscolo che gran parte della storia andò inventata, cercando di non tradire lo spirito dell’opera originale, e trovando degli escamotage che suscitassero un forte coinvolgimento dello spettatore, con l’esito di resistere alla diffidenza che il pubblico generalista purtroppo nutre per il popolo ebraico e per le sue vicissitudini.

Il secondo caso citato è la trasposizione in una serie tv del romanzo “Il bell’Antonio”, di Vitaliano Brancati, il cui protagonista ha un atteggiamento passivo che mal si adatta alle esigenze di una sceneggiatura televisiva, dove si presume che il personaggio principale sia un motore importante della trama. Anche rispettando il senso profondo della storia (che usava l’impotenza del protagonista come metafora della posizione scomoda dell’italiano medio “per bene”, non necessariamente violento o aggressivo eppure incapace di schierarsi contro il fascismo), non fu semplice venire a capo di una sceneggiatura dall’impianto classico. Ancor più per la presenza di un personaggio femminile che nel romanzo veniva trattato da un punto di vista fortemente misogino, e che quindi nella trasposizione televisiva fu radicalmente modificato (usando quindi violenza all’opera originale), trasformandolo da donna opportunista a donna tormentata, portatrice di un sentimento forte per un uomo che non può mai avere del tutto.

Per la sessione pomeridiana, alle relatrici già citate si è aggiunta la scrittrice Lorenza Ghinelli, anche lei in passato sceneggiatrice televisiva, con qualche incursione nel teatro. Si è partiti dalla considerazione generale che c’è una traccia comune a tutte le storie del mondo, una trama-base. La si potrebbe riassumere così: “Qualcuno vuole qualcosa e, durante la ricerca, cambia”.

C’è quindi un protagonista; a cui accade qualcosa di imprevisto (il cosiddetto incidente scatenante); che crea per lui un obiettivo “tangibile”; e contribuisce a rivelare un suo bisogno inconscio (o “fatal flaw”); e lo mette in conflitto con un antagonista; motivo per cui si arriverà a una lotta, con una battaglia finale, e ad una sua autoscoperta, ovvero il momento culmine del cambiamento interiore necessario a soddisfare il bisogno inconscio, cosa che a sua volta lo aiuterà a vivere meglio rispetto a prima e a raggiungere l’obiettivo tangibile. La trama prende consistenza nel momento in cui riesce a intrecciare il protagonista, il suo bisogno inconscio e l’antagonista; quest’ultimo può essere interno (una passione, un senso di colpa, una fobia…), relazionale (un nemico, un parente, un collega…) o esterno (un maremoto, una valanga, lo spazio siderale…).

In un romanzo, in particolare, assume grande rilevanza il punto di vista del narratore: colui che fornisce le informazioni sui personaggi, talvolta anche un giudizio su di loro, ha uno stile di scrittura, sceglie come passare da un momento temporale a un altro. A dispetto di ciò, tuttavia, non è detto che un romanzo dotato di una voce narrativa forte e originale, e che ha una grande storia, abbia anche una grande trama, o che quella trama sia pronta a essere trasposta in un film. Ad esempio, per adattare “La morte a Venezia” di Thomas Mann, il regista Luchino Visconti decise che il protagonista sarebbe stato un musicista invece che uno scrittore, e introdusse il personaggio di un amico (inesistente nel romanzo): entrambi artifici finalizzati a rendere la storia più comprensibile e dinamica per lo spettatore e non più per il lettore.

La trasposizione da romanzo a film prevede almeno quattro passaggi chiave. Linearizzare gli eventi (ovvero estrapolare la fabula, la cronologia esatta, cosa succede e in che ordine); individuare la struttura che sarà possibile dare al film; capire quali sono gli elementi imprescindibili, da mettere in rilievo; posizionare l’incidente scatenante il prima possibile. Questo non toglie che si possa lavorare su ciascuna delle quattro fasi in modi diversi e ottenere sceneggiature (e quindi trasposizioni filmiche) diverse. Lo ha dimostrato la lettura dei primi due capitoli di “It” di Stephen King, e la visione delle due trasposizioni che ne sono state realizzate: la miniserie televisiva del 1990 e l’adattamento cinematografico del 2017. Sono evidenti le differenze nel modo di visualizzare i personaggi, di dare spazio ad alcune scene, di spostare l’ordine degli eventi.

Come secondo esempio è stato scelto “Charly”, un racconto della stessa Lorenza Ghinelli, e insieme al pubblico del workshop sono state fatte varie ipotesi possibili su come affrontarne una teorica trasposizione, puntando di volta in volta l’attenzione su personaggi diversi, sul tempo presente oppure sull’antefatto, inquadrando dettagli o panoramiche: ogni scelta contribuisce a focalizzare un aspetto della storia e a illuminarlo sotto una luce specifica.