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Scrivere di donne

Sabato 14 aprile si è conclusa, a Imola, la seconda edizione della rassegna “Donne di Carattere”, organizzata dal polo emiliano-romagnolo di Ewwa con la collaborazione del Comune di Imola e il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Imola.

Il tema della giornata finale era “Chiavi di lettura: scrivere di donne”, che non a caso richiama il titolo di una fra le giornate della prima edizione della rassegna, dal titolo “Chiavi di lettura: la figura femminile nei media”. Era infatti intenzione di Donne Di Carattere proseguire un discorso sulla rappresentazione delle donne in vari ambiti, da quello giornalistico a quello pubblicitario a quello narrativo.

La sessione mattutina del workshop è stata moderata con garbo e brio dalla professoressa Fabrizia Fiumi, che ha accompagnato le relatrici, Carla Maria Russo e Giulia Alberico, a ripercorrere le tappe principali della loro formazione e della loro attività di scrittrici. Le due autrici hanno alcune caratteristiche che le accomunano: entrambe nate in luoghi di provincia, entrambe poi trasferitisi in grandi città (Milano nel caso di Russo, Roma nel caso di Alberico), tengono alle loro radici ma si considerano ormai adottate dalle metropoli in cui vivono. Entrambe sono state insegnanti di materie umanistiche. Proprio la didattica ha costituito un primo approccio con il gusto e l’esigenza dell’affabulazione, del suscitare interesse in uno studente come in un lettore. Una conversazione, tanto più se impostata per insegnare, necessita di metodo, di una modalità discorsiva che segua un filo preciso, proprio come bisogna fare per mettere una storia su carta: un misto fra organizzazione e passione.

Attraverso quali criteri o quali spunti scegliere cosa raccontare? Carla Maria Russo ama concentrarsi su storie intense dal punto di vista emotivo, che mettano in scena personaggi anticonformisti, la cui personalità sia in contrasto con la mentalità che li circonda – il che può generare una sfida, una forma di rivolta spesso da pagare a caro prezzo: nulla di troppo diverso dalla realtà odierna, soprattutto per quel che riguarda le donne, tuttora vittime di oppressioni e violenze di stampo patriarcale. Nei libri di Russo è anche sempre presente un tema, un argomento di fondo, che le sia caro (ad esempio, “La sposa normanna” affronta il tema del rapporto fra donna e maternità).

Giulia Alberico ha un approccio più istintivo: le sue storie nascono da suggestioni, da spunti di ogni genere. Ad esempio, “La casa del 1908” parte dall’idea di mettere in scena il punto di vista di un’abitazione, che non vuole essere messa in vendita e racconta le vicissitudini di chi l’ha abitata. È un’occasione per presentare personaggi femminili dalle psicologie intrecciate, complicate, stimolanti. Questo anche perché la donna vive una certa difficoltà nell’individuare se stessa: è da sempre oggetto di letteratura, ma col tempo ne è diventata anche soggetto, che può finalmente parlare di sé. La scelta di figure femminili contemporanee nasce dal modo in cui, proprio vivendo il mondo di oggi, può arrivare una scintilla creativa: il mondo femminile è un vaso di Pandora, basta ascoltare cosa succede intorno a noi, anche nel più casuale dei modi (una conversazione in autobus, un trafiletto sul giornale).

Carla Maria Russo predilige invece le figure storiche per via di un amore profondo per i mondi sepolti, le società a noi sconosciute, quelle che possiamo solo ricostruire attraverso lo studio e le testimonianze, così da dare voce a chi non ha potuto averla. Resta il fatto che tutti i libri in fondo trasmettono l’io interiore di chi li scrive e mettono in scena sentimenti, che sono eterni e quindi ci toccano, qualunque sia la distanza storica che ci separa da essi. Certe situazioni, proiettate in società dure e ingiuste, acquistano un maggior potere di deflagrazione e quindi un impatto emotivo più forte nel momento in cui vengono lette.

Il tema della ribellione femminile ha spazio anche nel romanzo contemporaneo, ricco di donne che fanno i conti spesso non solo con un antagonista esterno ma con loro stesse, a volte perfino quando credevano di averlo già fatto. Il ritorno del rimosso è un tema profondo, i cassetti che contengono i ricordi di una madre morta possono parlare, raccontare, portare a galla ricordi e prese di coscienza. Andrebbe però rifiutata la definizione di “scrittura femminile”, che si porta dietro una connotazione spregiativa. Uomini e donne avranno anche uno sguardo diverso sul mondo e abitudini culturalmente diverse su come manifestare le emozioni, eppure sempre di emozioni si tratta, chiunque le provi o le descriva. Basterebbe pensare al libro “Ho taciuto”, di Mathieu Menegaux (in Italia edito da Bompiani): una storia che si direbbe potesse essere scritta solo da una donna, e invece non è così.

C’è stato spazio anche per presentare le ultime due fatiche delle autrici. La vicenda familiare raccontata in  “Grazia”, di Giulia Alberico, si snoda negli anni 1942-43, con eventi (storici e non) che si svolgono fra Ortona, Campo Imperatore e Chieti. “Le nemiche” di Carla Maria Russo mette invece in scena la feroce rivalità fra Isabella d’Este e Lucrezia Borgia; un’inimicizia apparentemente legata a questioni superficiali e invece radicata in differenze profonde dal punto di vista culturale e morale.

La sessione pomeridiana, condotta da Laura Costantini e Carla Cucchiarelli, era dedicata all’annoso problema dell’uso di stereotipi per rappresentare le donne, soprattutto nella letteratura di genere. Si è partiti da un assunto: chi racconta storie ha un ruolo: le storie sono importanti per definirsi, per dire chi si è, e qualsiasi romanzo dà un’immagine della società, di chi la vive, di chi la compone. Se però nella società odierna e in narrativa un’evoluzione del ruolo delle donne innegabilmente c’è stata, resta il fatto che spesso, in certa narrativa, l’immagine femminile è presentata secondo una serie di cliché culturali che ci portiamo dietro e di cui non riusciamo a liberarci. Non solo, ma questo “peccato originale” di autori, autrici e pubblico spesso non viene neppure riconosciuto, da nessuna delle parti in causa, e ha le sue radici in una immagine che risale a millenni fa: le donne a occuparsi di casa e famiglia, gli uomini a caccia o a fare la guerra.

Laura ricorda ad esempio un fotoromanzo pubblicato su “Bolero” a metà degli anni Settanta: la storia di una ragazza che vuole fare la giornalista e trova un posto in una redazione. Nello stesso periodo si innamora di un uomo che, in vista di matrimonio e prole, vorrebbe che lei lasciasse il lavoro. Lei parte per Hong Kong per un reportage, ma sul posto le capita un problema, sta molto male, viene operata d’urgenza. Sotto anestesia, si rende conto che il suo destino è sposarsi e fare figli. Torna a casa, lascia il lavoro e si sposa.

Decenni dopo, al cinema esce “Il diavolo veste Prada”: la direttrice è una donna di successo ed è cattivissima, quasi che non possa essere altrimenti; è sposata, ma il suo matrimonio è fallimentare. La giovane protagonista, per fare carriera, deve sottostare a una serie di angherie, ma quando ha ottenuto il lavoro che vuole, lo lascia perché quel tipo di carriera è incompatibile con l’amore per il suo ragazzo. Troverà poi lavoro in un altro ambiente, più umano e corretto, ma rispetto alla storyline principale questo sembra quasi un contentino.

Ci sono poi quelle storie (scritte o filmate) che si fanno propagatrici di stereotipi ridicoli, legati alla figura femminile. Spesso si tratta di romance (nelle sue varie declinazioni, ma il problema non è certo la storia d’amore. Il problema sono le donne incapaci, goffe, quelle – per intenderci – che partono per l’Alaska portandosi dietro tacco 12 e tailleur. Spesso, create e descritte da donne.

Più in generale, bisognerebbe intervenire sulla fantasia delle donne e sui vecchi insegnamenti, a partire da quello per cui si presume che la donna debba essere aiutata o sorretta da qualcuno, la generalizzazione dell’uomo che si occupa di portare la borsa della spesa pesante. Ma purtroppo, in certi contesti, un’affermazione come “A te ci penso io” è l’inizio della fine, l’inizio della schiavitù. Ed è, purtroppo, la base di tanto romance che mette in scena protagoniste imbranate, che vanno in Alaska in bikini e portano i tacchi nel Sahara, se c’è una buca per strada ci finiscono dentro. La protagonista imbranata è felice di trovare qualcuno che pensa a lei. È un messaggio che valga la pena di trasmettere?

C’è modo e modo di raccontare come una donna vive una storia d’amore. Passione folle non significa annullarsi per l’oggetto del proprio amore, autrici e lettrici dovrebbero far sentire che le cose stanno cambiando e devono cambiare. Tempo fa, tra le manager americane, si parlava del ritorno della sindrome di Cenerentola: manager affermate che volevano stare a casa con i figli, il che non sarebbe un problema, ma poi si proponevano di insegnare alle figlie che la cosa importante per una donna è casa e figli. Sembra una lontana premessa per “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood e non tiene conto del cambiamento sociale in corso e dei passi avanti sul rapporto lavoro-famiglia per le donne.

Perché è difficile liberarsi dello stereotipo? Perché ci aiuta a darci un’identità. La “personaggia” che mette tacchi e tailleur tutti i giorni tende a metterli anche in Alaska perché sente che la sua identità sta anche nelle sue abitudini di vestiario. Inoltre, andare contro la tradizione è un rischio, può far vendere meno libri. Ci sono esempi di rappresentazioni inconsce della disuguaglianza sociale e di genere perfino nei libri scolastici, per le scuole di ogni ordine e grado.

Meglio sarebbe abituarsi a guardare da un’altra prospettiva (come suggeriva il professor Keating de “L’attimo fuggente”); anche perché, se la donna rimane aderente alla prospettiva dell’uomo su cui appoggiarsi, a cui affidarsi, poi la volta che invece cambia idea e si ribella a questa abitudine, certi uomini non la prendono bene, come la cronaca insegna. Hanno fatto un buon lavoro, in tal senso, le “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, che rifiutano gli stereotipi e propongono esempi di donne in cui le bambine possano riconoscersi. Hilary Clinton aveva detto a una bambina: “faccio tutto questo in modo che, crescendo, tu sappia che una donna può essere presidente degli USA.”

Sia chiaro, nessuno scrive PER insegnare qualcosa; scriviamo per raccontare, perché ci viene in mente una storia, per intrattenere. Ma è facile che, nel momento in cui mettiamo la storia su carta, emergano contenuti, magari rimossi o inconsci, che non è possibile trascurare. Perfino nel romance più rigoroso, con la massima aderenza ai paletti di genere, si può scegliere di aggirare quegli stessi paletti ed evitare di perpetuare gli stereotipi (fino ad arrivare a un ribaltamento, come nel film “Notting Hill”).

Velma J. Starling