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Empatia, questa sconosciuta.

Capita, a volte, di essere consci delle cose senza però sentirne la portata emotiva. E quando questa arriva, potente come una valanga, ti trova nudo e indifeso. Ti lascia senza fiato e, appena riesci a riprenderti, le cose attorno hanno assunto colori più vividi, crudi.

Sono una persona socievole, anche se amo viaggiare da sola. La solitudine non mi spaventa, anzi. Ho bisogno di tempo e spazio da trascorrere in compagnia solo di me stessa. Però mi trovo bene in mezzo alla gente. Sono diventata più selettiva, è vero, ho bisogno di compagnie stimolanti, di persone che sappiano mettersi in discussione e con le quali poter parlare di tutto. Di conseguenza, quest’ultimo anno di restrizioni è stato piuttosto difficile. Certo, telefonate, messaggi, videochiamate mi hanno tenuto in contatto con le persone più care. Ho anche scritto lettere ad amiche lontane, una cosa che ho sempre amato fare e che ho apprezzato di nuovo.

Abbiamo rispettato regole e restrizioni con diligenza, e anche durante la parentesi estiva in cui c’era più libertà, non abbiamo incontrato molti amici. L’altro giorno, per motivi di lavoro, abbiamo visto una coppia di amici carissimi. Erano mesi che non li vedevo. Si sono fermati una mezz’oretta e abbiamo chiacchierato del più e del meno. Quando sono andati via, sono rimasta a fissare l’auto che si allontanava mentre la consapevolezza di quanto mi erano mancati mi scivolava sotto pelle calda come lava. Sapevo che mi mancavano le serate con loro, ce lo siamo scritti spesso in questi lunghi mesi. Ma in quel momento ho provato la portata di quella mancanza.

Allora ho guardato i miei ragazzi, non ancora adolescenti, e mi sono chiesta cosa provano davvero. In apparenza non li vedo troppo sofferenti, anche se hanno scatti di nervosismo frequenti e intensi. In breve tempo hanno imparato come connettersi con gli amici e chiacchierare e giocare online, perciò non si può dire che siano completamente soli. Ma li vedo ogni giorno girare per casa con queste cuffie giganti e luminose in testa, la pelle pallida e gli sguardi un po’ assenti. Anche se sto attenta all’alimentazione, stanno ingrassando, e discutono su chi deve scendere le scale una volta in più perché è troppo faticoso. Il grande diventa sempre più scontroso e arrogante mentre il piccolo, già timido, sempre più apprensivo e pauroso.

Questi ragazzi sono il nostro futuro. Già prima della pandemia non è che il nostro paese fosse quell’oasi felice dove si desidera restare – e lo dico io che amo l’Italia. Che ho vissuto all’estero ma sono tornata. Perché leggo giudizi arroganti e ciechi contro di loro e le loro famiglie? Certo, fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo. Sostenere che chi vuole riaprire le scuole lo faccia solo per parcheggiare i figli è, a mio parere, cattiveria.  Oltre che ignoranza e mancanza di empatia. Affermare che questi giovani sono dei rammolliti perché stressati dal dover restare chiusi in casa tra mille comodità, mentre i nostri nonni si alzavano alle quattro per accudire le bestie e poi alle sei si facevano cinque chilometri di strada per andare a scuola, è fuori luogo. La società progredisce. Ci si sforza tutti per migliorare le condizioni sociali, economiche, sanitarie e culturali dell’intero paese. Che razza di paragone è? E poi mi chiedo: ci saranno stati anche i figli di persone benestanti all’epoca dei nostri nonni. Se li si mandava a pascolare le bestie alle quattro di mattina, mi sa che non l’avrebbero presa bene.

Se riuscissimo a metterci nei panni degli altri, tanto da sentire gli altri come se fossimo noi, non avremmo più bisogno di regole, di leggi. Perché agiremmo per il sentire comune e quindi non faremmo mai qualcosa contro qualcun altro che sentiremmo come fosse noi.

Per questo bisognerebbe fare teatro nelle scuole, perché l’esercizio di mettersi nei panni degli altri, è un esercizio che ci può far diventare veramente una società migliore. ” P.A. Kropotkin

Ah già, i teatri. Quelli chiusi un anno fa. Come le palestre, dove lavoravo. Non sono così ingenua da credere che l’empatia, il mettersi nei panni degli altri, sia semplice da applicare. Dicono che si possa imparare, ma bisogna volerlo.

Io vorrei che il vuoto che si sta facendo spazio dentro di noi non si trasformi in una voragine incolmabile. Che la tecnologia non diventi in via definitiva la sostituta dei rapporti umani. Che quello che è andato perso possa essere recuperato in modo costruttivo, anche se diverso. Mi accorgo che ciò che mi fa paura non è il Covid, ma quello che stiamo diventando.

Non mi vergogno ad ammettere che mi mancano le persone care. Che continueremo a essere prudenti ma che vorrei vedere i miei figli crescere e confrontarsi con i loro coetanei dal vivo. Che quello che stiamo attraversando è un evento epocale ma dal quale dovremmo sforzarci di trarre insegnamento.

Un po’ di empatia in più e un po’ meno giustizieri.